Questa biografia di De Andrè è stata scritta insieme a Marco Frigerio e Fabrizio Moscatelli, in un periodo imprecisabile, molti anni fa…
Una sera, raccontò Paolo Villaggio, piombò in casa Repetto un gatto randagio, che sputò per terra un topo morto. Un odore terribile. C’erano anche delle ragazze e tutti erano disgustati dalla scena. Ed ecco arrivare Fabrizio, che in un attacco di follia esibizionista fra le urla di orrore dei presenti fa: “Che schifo un cazzo, io me lo mangio anche un topo così”. Un amico esclamò: “Se lo mangi ti do quarantamila lire!”. Fabrizio si chinò, masticò il topo tra l’orrore generale, lo sputò e prese i soldi.
Con il futuro Fantozzi, Fabrizio condivise non solo le infinite notti in bianco a casa Repetto, passate a suon di poesia, arte, musica, alcool e “stronzate”, ma anche la stesura dei testi di alcune canzoni che sarebbero poi divenute celebri. Nei brani I fannulloni e Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers, figli di questa collaborazione, si percepisce in modo chiaro la vena comica di Villaggio: specialmente il testo di Carlo Martello, è una parodia del perbenismo aristocratico incarnato dalla figura ridicola di un re che, impegnatissimo ad apparire un eroe, si dimostra nei fatti un uomo prepotente, mediocre e per di più spilorcio.
I fannulloni è invece il testo che meglio rappresenta il clima che si respirava nella compagnia:
“Senza pretesa di voler strafare
Io dormo al giorno quattordici ore
Anche per questo nel mio rione
Godo la fama di fannullone…”
Pur non avendo un’indole stacanovista, Fabrizio non era però neppure uno sfaccendato. Il 1962 fu un anno di svolta nella sua vita privata: a soli 22 anni si sposò con Puny, iniziò a lavorare come direttore amministrativo in una scuola privata del padre, proseguì gli studi in giurisprudenza e, dulcis in fundo, il 29 Dicembre vide la nascita del primo figlio, Cristiano.
Sono anni duri e impegnativi. La Karim pubblicò una decina di suoi 45 giri (singoli diremmo oggi) fino 1968, anno in cui Fabrizio divenne famoso al grande pubblico grazie all’interpretazione della canzone di Marinella da parte di Mina e decise di cambiare editore.
Marinella, Piero, Bocca di Rosa, il Michè, Giordie: sono solo alcuni dei volti che popolano l’ampia folla di miserabili cantati in quegli anni da De Andrè: “la sua scelta di campo per gli umili, gli straccioni, deriva dalla sua fedeltà alla tradizione politica del movimento anarchico e dalla straordinaria attrazione che ha avuto su di lui la figura di Gesù, definito il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”[1].
Che cosa pensi Fabrizio dei suoi miserabili, è espresso in modo fantastico nella Città vecchia, brano di quel periodo:
“Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo”
Come disse in un’intervista, “Nella Città vecchia dimostro di avere sempre avuto, sin da giovane, pochissime idee, ma in compenso fisse, nel senso che in questa canzone già esprimo quello che ho sempre pensato, ovvero che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore”[2].
Con un po’ di sforzo, potremmo forse iniziare a capire con Fabrizio anche il gesto del vecchio pescatore che “versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete ho fame”, anche se questi era un assassino inseguito dai gendarmi. Nel vangelo si dice: ” Non giudicate, e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati”[3]: De Andrè, senza fede, non arriva forse a considerare gli ultimi, gli oppressi come beati, ma legge comunque la loro realtà da una prospettiva molto simile a quella di Gesù il quale non a caso, ben prima del pescatore, versò il vino e spezzò il pane.
Nel 1967 venne pubblicato il primo album di Fabrizio, intitolato Volume I: le prime quattro canzoni mettono subito in luce l’importanza del problema di Dio nel percorso deandreiano, un Dio dai contorni molto labili, al quale De Andrè osa a volte dare addirittura dei consigli, come nel primo brano, Preghiera in gennaio, dove riferendosi ad un suicida, dice a Dio:
“ascolta la sua voce che ormai canta nel vento
Dio di misericordia vedrai, sarai contento”
La voce in questione era quella di Luigi Tenco, morto suicida nel gennaio di quell’anno. Disse De Andrè in un’intervista: «Una sera sentii qualcuno toccarmi su una spalla, mi voltai e lo riconobbi, era Tenco. Mi apostrofò: “Sei tu che vai in giro a dire che Quando l’hai scritta tu?” E io: “Sì”. E lui: “Perché?”. “Per prender della figa” risposi. Lui si mise a ridere e diventammo amici» [4]. Tenco morì suicida il 27 gennaio 1967. La notte prima del funerale, Fabrizio scrisse di getto Preghiera in Gennaio, in onore appunto dell’amico.
L’anno seguente (1968) Fabrizio pubblicò il suo primo concept album (cioè con un unico filo conduttore, sia nei testi che nelle musiche), Tutti Morimmo a Stento, Cantata in si minore per solo, coro e orchestra, opera dai toni barocchi a da una certa rigidità retorica. Nell’album si parla, come disse lo stesso Fabrizio, “della morte psicologica, morale, mentale che un uomo normale può incontrare durante la vita”. “Tutti Morimmo a stento è un messaggio di disperato amore per tutti i diseredati cui una specie di morte morale impedisce di recuperare il perduto gusto della vita. E proprio la morte fornisce il fondale inquietante di questa cantata, un polittico che allinea tutto il triste campionario di unamità derelitta: tossicomani, impiccati, bimbi impazziti negli agghiaccianti jeux interdits di una guerra apocalittica, adolescenti traviate, falsi Babbi natale che cercano nell’amore di fanciulle ancora pure il brivido dimenticato della gioventù. Su tutto aleggia, nel dolente racconto dell’autore, la consapevolezza del proprio peccato e dell’impossibilità a riscattarsene, l’avidità di luce e di quiete cui fa riscontro la condanna all’ombra e al tormento”[5]. Destino comune a tutti gli uomini, “sian grandi sian piccini, sian furbi sian cretini”, è infine la morte, che fa di ogni desiderio umano “vanità di vanità”:
“Uomini, poiché all’ultimo minuto
Non vi assalga il rimorso ormai tardivo
Per non aver pietà giammai avuto
E non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.”
Due linee guida dello stile di produzione artistica di Fabrizio furono per tutta la sua carriera il ricercare collaborazioni di amici alla stesura dei brani e il prendere ispirazione dalle molte buone letture; nel caso specifico di Tutti Morimmo a stento ritroviamo le idee di Mannerini, poeta anarchico suo amico e le rime di Villon, prosatore francese quattrocentesco.
Volume III apparve nel Dicembre dello stesso 1968, sulla cresta dell’onda. L’album ha un aspetto molto più eterogeneo e comprende fra l’altro nuove versioni di brani già pubblicati (Il testamento, Marinella, La guerra di Piero), una traduzione di Brassens (il celebre brano il Gorilla), e Il Re fa rullare i tamburi, tratta da una canzone popolare francese del XIV secolo.
Lo spirito di poeta maledetto di Fabrizio si evidenzia nell’interpretazione musicale di un sonetto di Cecco Angiolieri, S’i fosse foco, visione goliardica dell’esistenza che contrappone alla donna angelica del Dolce Stil Novo (simbolicamente accostabile al perbenismo borghese odiato da De Andrè) i piaceri passionali e transitori (la donna, la taverna e ‘l dado, per dirla con Cecco Angiolieri stesso), elementi rintracciabili anche in altre canzoni di Fabrizio.
Così come Angiolieri si prende beffa di tutto e di tutti, potenti in prima linea, allo stesso modo Brassens (e con lui Fabrizio) si prende gioco del potere attraverso la figura del Giudice allegramente violentato nell’erba alta da un Gorilla ancora vergine, inconsapevole autore della piccola vendetta di un poveretto ingiustamente giudicato e condannato dal giudice il giorno prima:
“Dirò soltanto che sul più bello
dello spiacevole e cupo dramma
piangeva il giudice come un vitello
negli intervalli gridava mamma
gridava mamma come quel tale
cui il giorno prima come ad un pollo
con una sentenza un po’ originale
aveva fatto tagliare il collo.
attenti al gorilla!
[1]Paolo Ghezzi, Il vangelo secondo De Andrè, Ancora 2003, pag. 132
[2]Luigi Viva, Vita di Fabrizio De Andrè, Feltrinelli 2000, pag. 7
[3]Luca 6, 37
[4]Come un’anomalia, Einaudi editore, 1999, pag 37
[5]Ivi, pag. 56-57